Ecco il testo dell’intervista che mi ha concesso Giacomo Susca Caporedattore del quotidiano il Giornale, abbiamo affrontato la tematica dello smart working.
La paura improvvisa del tempo libero.
Prima di entrare nell’era della grande paura c’è stata un’epoca in cui agli uomini era consentito inseguire il tempo oltre il lavoro. Tempo libero appunto, come ambizione o come miraggio.
La stessa economia fondata sui consumi si basa sulla divisione tra un tempo produttivo e un tempo improduttivo (ludico magari) in cui dedicarsi ai propri interessi, godere dei frutti delle proprie passioni, oppure perché no, adagiarsi nell’ozio. Sembra ieri, e difatti è così. Come se l’infezione da Coronavirus avesse di colpo stravolto la concezione lineare del tempo e dello spazio, di cui è specchio l’accelerazione esponenziale dei contagi, aprendo alla nostra vita quotidiana le porte di una dimensione inedita. L’Italia, sospesa nel limbo delle misure straordinarie, impara a tarare l’orologio sociale su scadenze soltanto due settimane fa nemmeno immaginabili. Scuole e università chiuse, cinema e teatri popolati a scacchiera, banconi dei bar off limits, partite di Serie A con l’eco e distanza di sicurezza sui mezzi pubblici. Insomma, che piaccia o no, è stato imposto un mese «sabbatico» per tutti. Fino a metà marzo, forse aprile. O fino a futuro decreto ministeriale.
È nel mondo del lavoro che le politiche anti-contagio stanno provocando le ripercussioni più massicce. Discutere di smart working rischia di limitare i confini della questione, se è vero che alla vigilia dell’emergenza soltanto il 2 per cento dei lavoratori italiani aveva accesso a questa modalità (circa 354mila dipendenti sugli 8,3 milioni di potenziali interessati). Un instant survey dell’Associazione dei direttori del personale (Aidp) dimostra la resilienza delle imprese del nostro Paese: sette su 10 stanno già ricorrendo allo smart working; la metà ha previsto una riduzione dei viaggi di lavoro e la sospensione delle attività di formazione. Come riassume la presidente Isabella Covili Faggioli: «Le aziende, in questi giorni concitati, hanno dovuto affrontare con senso di responsabilità la gestione dell’emergenza».
Resta però il senso di spiazzamento per chi si ritrova ad armeggiare con pc e faldoni tra il divano e la sala da pranzo, specialmente se non l’ha mai fatto prima. Massimo Perciavalle, psicologo del lavoro e career coach, spiega: «Lavorare da casa solo in un secondo momento è un problema organizzativo. È piuttosto un paradigma culturale dove è centrale l’elemento della volontarietà. Invece con il Coronavirus siamo di fronte a una costrizione, pur se per cause di forza maggiore. Non tutti i lavoratori possono reagire positivamente, dipende dalla capacità di gestione del tempo in autonomia in un ambiente domestico che non sempre è favorevole alla concentrazione e alla produttività. Il rischio inoltre, stando sempre connessi – aggiunge Perciavalle – è che nel medio/lungo termine non si riesca più a differenziare il tempo del lavoro da quello dello svago. Con le conseguenti difficoltà di adattamento. Ma il nostro sistema, sia pubblico sia privato, ha la possibilità di trarre insegnamento da questa situazione». Come se fosse in atto una «sperimentazione» del futuro su larga scala.
La clessidra del terzo millennio si sta riempiendo della sabbia di una nuova epoca «d.C.», cioè dopo Coronavirus. Non è certo un caso che prima della comparsa del paziente 0, anzi dell’anno 0 del contagio, sugli scaffali delle librerie andassero a ruba saggi e testimonianze su come «mollare tutto e ricominciare», mentre i sociologi insistevano sugli effetti benefici di un periodo lontano dalle abitudini, soprattutto al lavoro. Curioso notare come oggi – tanto più di fronte all’eventualità che quel mese sabbatico non basti e che il distacco dalla normalità si protragga a lungo – ci troviamo a fronteggiare la subdola minaccia del virus con la tipica vertigine di chi fissa l’abisso di un tempo non libero, ma svuotato.